“Una monetina capo, per favore…” Perchè tutti possiamo finire per strada

Non sono un economista, nè tantomeno un giornalista, ma un uomo con un cuore ed un cervello si.

Sono un cassaintegrato, e vivo con pochi spiccioli in tasca, sperando in un futuro migliore per me. Risiedo in un paesino della Riviera del Brenta, ma sono di Mestre, dove mi reco spesso tramite il treno. Dalla stazione alla Fondazione Marotta, in cui faccio volontariato, percorro tutti i giorni i circa tre chilometri a piedi, e i volti delle persone che incontro lungo la mia strada sono spesso gli stessi, come un quadro dipinto da chissà che demiurgo. I passanti ti accompagnano per pochi metri e non puoi non chiederti da dove vengano e dove stiano andando, ma mentre ti stai chiedendo ciò questi prendono un’altra strada… O forse sei tu a prenderla… e non ti resta che il dubbio su chi fossero quei tuoi compagni di strada…

Eppure da inizio anno i volti che incontro stanno cambiando, vedo sempre più mani tese per chiedere l’elemosina, ma non sono le solite mani dei soliti stranieri, o dei diseredati dalla società, bensì nuovi volti, nuovi poveri: italiani e non.  Io li conosco un po’ i poveri di Mestre, avendo fatto  volontariato in una mensa per i bisognosi di Mestre, ma questi nuovi volti non li conosco…

Li, fra i commensali, c’erano i giovani drogati, o che si curavano, drogavano?, con il metadone, gli africani e le badanti moldave o romene. Era strano vedere però gli italiani. Non parevano poveri, sembravano persone normali, integrate, e a volte anche colte. Scoprii col tempo che vi era un uomo divorziato, con un reddito di 1300 euro, e che doveva versarne 600 alla moglie, e 400 per l’affitto di una stanza. Gliene rimanevano 300, con cui non poteva certo mangiare, così al pomeriggio mangiava alla mensa ’aziendale e alla sera da noi. Due meridionali, baresi dall’accento vivevano per strada, erano emarginati dalla società, ma fra loro c’era una solidarietà che nessuna amicizia da me conosciuta sapeva essere così forte. Uno dei due era su una sedia a rotelle, ma non riuscivano a reinserirsi nella società e ad avere una vita migliore. Provavo rabbia nei confronti dei nordafricani quando li vedevo rifiutare il cibo, lasciarlo sul piatto ed andare a mangiare un kebab nel vicino negozio.

Giovedì scorso camminavo per via Piave e per l’ennesima volta la solita vecchina mi si avvicinò e mi chiese: “Ce l’hai una monetina giovane…”, testa china, un’umiliazione immensa nel volto.  Le diedi un euro.  Il giorno dopo, sempre lungo Via Piave,  un giovane, forse più di me, mi si avvicinò: “Una monetina capo… ho fame!” Mi sono fatto una violenza e non gli ho dato nulla. Ma poi lo stomaco mi si è rovesciato, avrei voluto tornare e dargli una monetina. Ma poi che faccio? Non ho neanche da mangiare col mio stipendio. Devo pagare il mutuo, le bollette e se comincio a dare euro a tutti, io come vivo?

Non mi è passata presto, e sono stato davvero male. Ma non per lui, per me. Ho sempre pensato che la mia malattia, depressione, prima o poi mi porterà a fare il barbone, che perderò il senno e vivrò sul marciapiede.  Sono discorsi scemi, certo, ma non sarei il primo…

Nel 2006 avevo più soldi, avevo adottato un bambino a distanza, aiutavo Emergency, la Fondazione Marotta, e altri enti. Ma quando avrò io bisogno di aiuto, ci me lo darò?

“Una monetina capo, per favore… Ho fame!”

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