“Il Cammino di Alessandro.” VI “Rendere fertile la terra”

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Un mio amico aveva comprato un terreno per estendere l’area del suo vigneto ed essendo un enologo decise di farlo analizzare per valutare se quest’area era già adatta alla viticoltura. Scoprì che doveva fertilizzare il terreno per mutarne le qualità organolettiche di ciò che avevano prodotto. Per ottenere in modo naturale questo risultato decise di seminare per alcuni anni prodotti che avrebbero tolto minerali “non buoni” e aggiunto minerali “buoni”. Ora quella terra produce un ottimo vino, ma per anni ci ha rimesso di tasca propria. Questo è il segreto per cambiare la propria vita: investire su sé stessi per migliorare la propria essenza.
Nel periodo del mio ricovero capii che il segreto per rinascere fosse seminare bene per un futuro che doveva ancora venire, e che questo mio seminare avrebbe prodotto inizialmente pochissime soddisfazioni e molte perdite, ma a lungo dopo qualche raccolto deludente avrei avuto un grande prodotto da vendere. E il mio prodotto non mi sarebbe servito per arricchirmi in danaro, ma in qualità della vita e in serenità.
Uscito dalla Clinica iniziai un percorso di ricerca interiore, fatta di lettura, di isolamento, ma anche di iniziative che mi portavano fuori strada, del tutto fuori strada, per poi riprendere il mio viaggio ancora più sicuro. Era difficile vedere apparire i primi risultati e chi mi circondava non capiva quanto la mia terra fosse arida e quanto andava ancora coltivata con prodotti specifici per poterla rendere di nuovo fertile. Dio sa quanti frutti sono marciti appesi alle piante, quanto seme è stato versato inutilmente in terre che non generavano prole, quanto amore non ho ricevuto durante questo percorso eppure la mia strada era quella, e non potevo dire a nessuno che la stavo percorrendo perché sentivo diffidenza verso di me, perché sapevo che in un mondo frenetico nessuno avrebbe capito la mia necessità di fermarmi e guardare l’acqua del fiume scorrere.
Nessuno sa che grande significato abbia l’acqua che scorre, quell’acqua che sembra sempre uguale ma che sa mutare così inesorabilmente il paesaggio, e mentre l’uomo poco accorto non si rende conto che tutto cambia intorno a lui, l’acqua lavora ancora per creare un mondo nuovo. L’acqua non sceglie il letto su cui scorrere, ma l’uomo può scegliere il luogo e il tempo in cui vivere, e, anche se solo in parte cercare di mutare la propria realtà.
Il mio segreto stava in fondo al mio cuore e mi sentivo sempre più solo, non riuscivo a far capire l’importanza del mio cammino perché non ne parlavo a nessuno, ma non potevo lasciarlo, era “Il Cammino di Alessandro”, e lasciarlo voleva dire far morire il vero Alessandro. L’avevo nascosto a tutti, non avevo permesso a nessuno di conoscerlo e l’avevo rinchiuso in una cella buia con una maschera triste che gli appesantiva l’anima. Ma Alessandro era vivo, e aspettava solo che la “terra tornasse fertile” per poter di nuovo sbocciare e tornare come quel bambino di cui mi raccontava mia madre, che appena sveglio calciava via le lenzuola e scoppiava a ridere.
E mentre il contadino si chiedeva perché gettassi al vento il raccolto, io mi nutrivo di nuova vita. E mentre in me morivano i frutti di un anno di lavoro, migliorava il terreno su cui coltivare il mio futuro.
E’ l’alchimia della vita, una sorta di regola non scritta, e come nella chimica si afferma: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” (Antoine-Laurent de Lavoisier), così anche nella nostra esistenza c’è uno scambio equivalente fra due vite, fra due essenze. Per generare una vita felice si devono versare infinite lacrime.
E il mio terreno deve ancora piangere raccolti gettati… E io devo ancora seminare terre aride e disperdere seme.

 

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“Il Cammino di Alessandro.” V “Sosta forzata”

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Uscire dalla clinica non fu facile, non fu come varcare una qualsivoglia porta e rientrare nella realtà, ma significò riprendere a vivere nella realtà, senza più essere circondato da “simili” e da un recinto ben definito. Ma: “Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo. (Ecclesiaste 3.1)”, ed era arrivato anche il tempo di tornare a vivere e riaffrontare il mondo reale.
Il 10 ottobre 2008 si concluse un ciclo, i quarantaquattro giorni più intensi della mia vita, forse fra i giorni che segnarono di più la mia coscienza e il mio modo di percepire il mondo. Avevo fatto le valigie, ed ero pronto ad andarmene dalla mia stanza, l’ultimo saluto prima di lasciarla per sempre. Varcai la soglia e venni circondato dalle mie amiche, dalle mie compagne di viaggio: Federica, Enrica, Maria, Teresa, ed altri mi circondarono e mi sommersero d’amore. Enrica mi abbraccio così forte che mi fece quasi male, e mi disse che ero la persona migliore che avesse mai conosciuto, piangendo e dicendomi grazie. Grazie anche a Maria, e a me, aveva superato il black out della sua psiche. Mi sentivo disorientato da quell’affetto, da quell’amore espresso da così tante persone. E i miei genitori guardavano a questa scena commossi. Salutai tutti e poi andai dal mio compagno di stanza, gli regalai un libro, “Agrodolce” di Mauro Corona, e “minacciai” di “picchiarlo” se non fosse uscito di casa più spesso una volta tornato tra le sue montagne. Salutai le infermiere, le Oss, i Dottori, la barista del piano terra, che mi offrì l’ultimo caffè, e varcai la soglia che mi riportava nella realtà.
Ero talmente intontito dai farmaci che non riuscivo a far nulla, dormivo sempre, mi svegliavo tardi e poi andavo a fare volontariato, e così passai il mio 2009 condizionato dal “Seroquel”, uno psicofarmaco che preso la sera mi rimbambiva per tutto il giorno. Non avevo aspettative, non avevo lavoro e non riuscivo a trovare la forza di cercarlo. Come avrei potuto lavorare se dormivo in piedi? Come avrei potuto concentrarmi se non avevo più forze da spendere. Ero caduto di nuovo, e iniziavo ad avere paura. Ma più di me avevano paura i miei genitori che continuavano a misurarmi con i loro mezzi culturali.
C’era un aspetto positivo nella mia vita in quel periodo, ero in cassa integrazione e questo mi permetteva di avere molto tempo per me, voleva dire più tempo da dedicare alla mia salute mentale e psichica, voleva dire avere un reddito pur non lavorando. Senza questa crisi io sarei senz’altro morto.
Non potevo più guidare, soprattutto la sera avevo paura della strada, la vista mi si offuscava e venivo preso dal panico, fu così che persi i contatti con gli amici, e che cominciai a capire di non averne di veri. Ero sempre a casa da solo, e se non ero io a muovermi nessuno veniva a trovarmi. Venti, trenta chilometri erano diventati incredibilmente lunghi da percorrere per venire da me. Magari per andare a mangiare fuori no, ma per dedicarli ad un amico in difficoltà erano immensi.
Finì, il 2009, finì il 2010. Miglioravo, ma ero fermo, anche se dentro me stava cambiando tutto io non me ne accorgevo.

 

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“Il Cammino di Alessandro.” IV “Tante storie, tante verità”

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Era il decimo giorno di ricovero, quando decisi di fermarmi e rifugiarmi in me stesso. I troppi attriti con gli altri pazienti della Clinica Psichiatrica mi stavano distruggendo, così cominciai a frequentare solo chi mi avrebbe potuto dare beneficio e serenità. Vi era in fondo al mio reparto una stanza gialla con otto tavoli, sempre illuminata dal sole era poco frequentata: decisi che quel luogo sarebbe diventato il mio rifugio. Chiesi ai miei genitori di portarmi il pc, che non era collegato ad internet, per poter mettere giù su “carta” un po’ di pensieri e rivivere scrivendole le mie sensazioni. Nella stanzetta arrivarono anche Maria ed Enrica che si intrattenevano a loro modo.
Maria era ricoverata perché aveva subito mobbing al lavoro, Enrica, invece, aveva una storia terribile alle spalle e dopo l’ennesima delusione era andata in tilt e non riusciva a fare altro che a ripetere tutto il giorno la stessa frase: “Ma lui mi lascerà? Secondo te mi ama?”, e me lo chiedeva almeno quaranta volte al giorno. Non la sopportavo! Poi, un giorno ho capito chi era, una “farfalla bagnata”: mi raccontò la sua storia e io capii il suo dolore. Abbandonata dai genitori, sola al mondo pur avendo due fratelli, si era sposata e suo marito, dopo anni di matrimonio, aveva vinto una cifra considerevole e con questa era fuggito, lasciandola al proprio destino. Fu allora che io e Maria adottammo Enrica e decidemmo di passare più tempo possibile con lei. Le facevamo fare esercizi ginnici, e scrivere un diario che poi leggeva a voce alta e discutevamo. La incoraggiavamo e la coccolavamo. E lei pian piano sembrava rialzarsi. Da Maria imparai a ridere di me stesso, da Enrica a piangere.
Lui era abbastanza alto, un metro ottanta, era grosso e aveva un pugno incredibilmente grande, aveva fatto pugilato per anni, poi d’improvviso si raggomitolando su sé stesso e piangeva come un bambino, o forse era simile al gigante di pietra che ne: “La storia infinita” aveva perso il figlio. In effetti lui aveva perso tutto, la madre era morta, era stato licenziato, la moglie gli aveva portato via la figlia. E lui non riusciva ad alzarsi più, non riusciva a reagire. E piangeva.
Era bellissima Elena, cantava in maniera divina, era meridionale, aveva la pelle olivastra e gli occhi che mi facevano battere il cuore. Era la mia fatina, e io decisi di corteggiarla. Fu così che iniziai a scriverle a mano lettere d’amore, dolcissime, a cui lei rispondeva abbracciandomi e cercando sempre di più la mia compagnia. Aspettavo che fosse sola in camera, e le facevo passare sotto la porta quelle lettere d’amore. Diventammo amici, seriamente amici, e la sera prima che se ne andasse la baciai. Lei in punta di piedi teneva una mano sulla mia spalla e con una mi accarezzava la schiena, lasciandosi trasportare, io fremevo e mi godevo quel momento infinito che dava un senso alla mia intera vita.
Occhi neri, scavati dal sonno, occhiaie che le deturpavano il volto, bionda, ma appassita, forse per sempre, parlava soltanto con un esile uomo rosso di capelli e molto discreto: erano gli alcoolizzati. La prima volta che li guardai sentii odio e indignazione, erano “brutti e sporchi” erano la “feccia” della società, così mi era stato insegnato. E li evitavo. Poi, facendo Arte Terapia, la donna bionda raccontò di essere stata sposata ad un uomo bellissimo, colto e pieno di interessi, che le aveva riempito talmente tanto la vita e il cuore che al momento della sua morte non aveva resistito ed era caduta in depressione. Disegnava magistralmente, e mentre ci mostrava i suoi capolavori gli occhi perdevano le occhiaie e tornavano giovani. Il ragazzo “rosso” disegnò una palma nel deserto, e sotto si fece l’autoritratto mentre pescava nella sabbia. “C’è sempre una speranza, c’è sempre qualcosa di bello da trovare”, lo descrisse così; io non potei che abbracciarlo, e riempirlo di affetto ringraziandolo della sua grande anima. A lui dedicai una poesia, a loro devo l’amore per chi sbaglia.
Carla aveva un ritardo mentale, ma sarebbe stata lì per poco perché bevendo oltre venti caffè al giorno si era ammalata e ora le mani le tremavano forte. Aveva 42 anni, ma essendo androgina e piccolina ne dimostrava 25, andava in bagno e lasciava la porta aperta: “il papà ha paura che mi faccia male se resto da sola!” diceva, e io passando per il corridoio le gridavo: “La porta!” Lei usciva dal bagno correndo, e mi ricordava tanto il conigli di “Alice nel paese delle meraviglie”, scusandosi e diceva: “Hai ragione mi hai detto che le donne chiudono la porta!” Le regalai una scheda telefonica da 5 euro e le feci promettere di non telefonare troppo speso a casa, lo faceva anche 25 – 30 volte al giorno, e il papà, che era in sedia a rotelle non poteva correre sempre a rispondere. Mi abbracciò: le sembrava un patrimonio quel regalo.
Barba bianca da montanaro, come il nonno di Heidi, ma magro e alto, sempre imbronciato e chiuso. Era il mio compagno di stanza, aveva 30 anni più di me e io temevo che mi avrebbe dato noia. Lui fu il mio “eroe”, mi adottò, e io adottai lui. Una sera una ragazza brasiliana gli chiese se volesse tagliarsi i capelli. Lui accettò, ma lei con una sforbiciata gli tagliò via la barba: che affronto per un montanaro! Anni di barba buttati via. Eppure non si arrabbiò. Da lui imparai la modestia, il saper ascoltare, l’essere puro e l’amare in silenzio.
Ci sono tante storie da raccontare, tanti motivi per cadere in un luogo così, ma ci sono soprattutto tante persone che hanno solo bisogno d’amore. E io lì l’ho imparato

 

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“Il Cammino di Alessandro.” III “Il ricovero”

Era il maggio del 2008 quando si verificò la crisi depressiva più forte della mia vita, stetti un mese in malattia e chiesi aiuto ad un sindacalista: non potevo più fare le notti. La comprensione è dura da trovare in un ambiente di lavoro, o nel mondo in generale. Ricordo che un collega aveva diritto a stare a casa tre giorni al mese perché il figlio era portatore di handicap, alcuni colleghi non lo sopportavano, non accettavano che lui stesse a casa quei giorni: la giudicavano un’ingiustizia. Io, sempre molto carino, augurai a uno di essi di avere un figlio con le stesse problematiche, per poter star a casa 36 giorni in più l’anno. Gli dissi che così anche lui avrebbe potuto fare week end lunghi a casa.
Tornando a me, quel mese fu davvero duro, ero catatonico, non riuscivo a leggere, non riuscivo a restare sveglio ma neppure a dormire. Pisolavo di continuo, ma non riposavo mai. Il “mio amico” sindacalista mi disse che mi avrebbe fatto fare un lavoro tranquillo e che non dovevo cedere. Finii in un reparto a lavorare su dei rec, tubi siti ad oltre quattro metri d’altezza senza imbragature né nulla per fermare un’eventuale caduta. E io volevo morire. Sangue. Vedevo sangue ovunque, mi immaginavo sventrato sotto una scavatrice, con i polsi tagliati, morto. Decisi di farmi ricoverare, lo chiesi alla mia psichiatra e lei mi fece andare alla Villa dei Tigli, a Teolo.
Quarantaquattro giorni durò il mio ricovero, 28 agosto – 10 ottobre 2008. Quarantaquattro giorni di pianti, crisi, amicizie, litigate, terapie varie: isolamento dal mondo reale.
Era isolata la Villa dei Tigli, e circondata da colline. Quelle colline patavine che piacciono tanto a chi ama mangiare e bere in agriturismi immersi nella natura. All’interno di essa conobbi decine di storie, il ragazzo che con gli acidi si era bruciato il cervello e vedeva targhe luminose ovunque, la ragazza vittima di violenze da parte del fidanzato, l’uomo che non aveva nessuno al mondo, la moglie che era catatonica dopo la morte del marito, le anoressiche e le bulimiche, gli ex alcoolizzati e ex tossicodipendenti… La “fauna” dei “diversi” era vasta.
Lei era esile, camminava avanti indietro in continuo, e cercava di ripercorrere l’esatto tragitto sia all’andata che al ritorno. Centinaia di volte. Non ricordo il nome, ma le dedicai una poesia, per farla smettere di consumarsi. Era questo lo scopo che si era prefissata camminando: consumare tutto ciò che le veniva dato da mangiare. Perché alle anoressiche, alle bulimiche e a chi soffriva di disordini alimentari veniva imposta una dieta. E lei a questa imposizione opponeva una enorme forza di autodistruzione.
Decisi dopo vari scontri con alcuni membri del gruppo di terapia di isolarmi, volevo ancora fortemente morire, così frequentare persone che erano lì per distruggersi non era positivo per me. Mi chiusi in una sala e lì smanettai al pc negli intervalli liberi dalla terapia e presi socializzare con persone piacevoli. Fu l’inizio di un percorso che dura tuttora.

 

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Nel periodo del mio ricovero capii che il segreto per rinascere fosse seminare bene per un futuro che doveva ancora venire, e che questo mio seminare avrebbe prodotto inizialmente pochissime soddisfazioni e molte perdite, ma a lungo dopo qualche raccolto deludente avrei avuto un grande prodotto da vendere. E il mio prodotto non mi sarebbe servito per arricchirmi in danaro, ma in qualità della vita e in serenità.

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