Il soldato e il Gigante nel Castello

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Vi era un soldato, tanto tempo fa, che viveva solo in un immenso Castello inghiottito da un deserto arso dal fuoco e dalla solitudine. Non vedeva anima viva da anni, eppure, ogni notte, sentiva il rumore di passi furtivi nei corridoi, ogni notte inseguiva quei passi, sperando di incontrare il suo nemico. Ma i passi rimbombavano e il nemico sembrava ciclopico, immenso: chi poteva fare tanto rumore nel muoversi, se non un Gigante?
Ogni mattina il soldato si alzava, convinto di poter finire la guerra e uccidere il Gigante, così, ripuliva le sue armi: affilava i coltelli, smontava e montava i fucili, oliandoli per bene, contava le munizioni, poi, andava al pozzo, prendeva l’acqua e si lavava, e mangiava un po’ di carne secca. Finita la colazione saliva sulla torretta per vigilare che nessuno potesse avvicinare al Castello. Giorno, dopo giorno, controllava quel deserto sperando, tutto sommato, che arrivassero i rinforzi, perché lui sapeva di essere troppo piccolo per sconfiggere il Gigante. Ma nessuno accorreva, in sua difesa, e ormai erano anni che viveva nel Castello.
Ogni sera scendeva, prendeva un po’ d’acqua, mangiava carne secca e andava a dormire. Ma ogni notte, si svegliava sentendo il Gigante correre per i corridoi. Lui lo sapeva!!! Il Gigante lo irrideva, ma come catturarlo se i suoi passi si facevano sempre più distanti lungo quel corridoio? E… poi il loro rimbombare spariva. E lui rimaneva fermo al centro del Castello, incapace di ricominciare a cercarlo.
Ogni mattina il soldato si alzava, convinto di poter finire la guerra e uccidere il Gigante, così, ripuliva le sue armi: affilava i coltelli, smontava e montava i fucili, oliandoli per bene, controllava che le munizioni fossero ancora buone, poi, andava al pozzo, prendeva l’acqua e si lavava, e mangiava un po’ di carne secca. Finita la colazione saliva sulla torretta per vigilare che nessuno potesse avvicinare il Castello…
Una notte iniziò a correre per raggiungere il Gigante, ma sentì un rumore venire da una stanza vicina: c’era qualcuno che rideva di lui! Non poteva sopportarlo. Aprì la porta e non c’era nessuno. Ma le risate rimbombavano nella sua testa, e sapeva che era lì vicino chi lo irrideva lui doveva ucciderlo.
Sfondò una porta, e si trovò circondato da mostri, bassi, grassi, sproporzionati, con teste enormi, orribili creature lo circondavano e più lui sparava più loro ridevano e si moltiplicava, e più lui combatteva più loro erano forti, finché… da un angolo di quella stanza si affacciò un soldato, aveva un fucile in mano, non era un Gigante, ma neppure un nano. Non era brutto, e neppure grasso. Era un soldato, solo, con un corpo vecchio e vistose occhiaie, aveva una barba lunga e mal curata, grandi rughe, e un’aria tanto stanca… il nostro soldato lo guardò, alzò il fucile, e gli sparò…
Vi era un uomo, tanto tempo fa, che si era chiuso in sé stesso, non viveva, che divideva la giornata in piccoli riti ripetitivi, che non amava, né era amato, abitava in una vecchia casa, un tempo “castello” forse. Un giorno si alzò, e scoprì che fuori dalla porta vi erano campi di fiori uccelli che cantavano, libellule colorate e bambini che saltavano la corda…
Vi era un uomo, tanto tempo fa, il quale capì che il Gigante non era poi tanto grande, e che il rimbombo di quei passi era solo la sua paura di vivere.

———>   E’ uscito il mio quarto libro: La persistenza della memoria:

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Spiegami l’amore (Alessandro Bon)

Adele Bloch Bauer ritratta da Klimt.

Spiegami l’amore

Spiegami l’amore tu
piccolo fiore nato lontano
che cerca le sue radici
nell’amore per il mondo.

Spiegami l’amore tu
figlia del deserto
rosa senza spine
circondata da filo spinato.

Spiegami l’amore tu
così piccola per esser dio
così grande per contenere l’universo
così donna da avere tutto me stesso.

Spiegami l’amore tu
ma fallo davvero
possedendo la mia anima
dopo aver avuto il mio corpo.

 

(Mia poesia tratta da “La persistenza della Memoria”)

Il viaggio del petalo (poesia)

By the Russian photographer Tatiana Mikhina

By the Russian photographer Tatiana Mikhina


Io sono il vento,
porto con me petali di rosa,
profumo di primavera,
estasi dell’amore.

Il petalo si lascia cullare
da una lieve brezza
ricordandosi bocciolo,
sentendosi vivo.

Sull’acqua si adagia
e lo stagno crea una culla,
come a voler portare in gloria
quell’ultimo pezzo di gioia.

 


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—-> La persistenza della memoria

Disponibile in Ebook o cartaceo.

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“Il Cammino di Alessandro.” VI “Rendere fertile la terra”

cura+del+suolo+orto

Un mio amico aveva comprato un terreno per estendere l’area del suo vigneto ed essendo un enologo decise di farlo analizzare per valutare se quest’area era già adatta alla viticoltura. Scoprì che doveva fertilizzare il terreno per mutarne le qualità organolettiche di ciò che avevano prodotto. Per ottenere in modo naturale questo risultato decise di seminare per alcuni anni prodotti che avrebbero tolto minerali “non buoni” e aggiunto minerali “buoni”. Ora quella terra produce un ottimo vino, ma per anni ci ha rimesso di tasca propria. Questo è il segreto per cambiare la propria vita: investire su sé stessi per migliorare la propria essenza.
Nel periodo del mio ricovero capii che il segreto per rinascere fosse seminare bene per un futuro che doveva ancora venire, e che questo mio seminare avrebbe prodotto inizialmente pochissime soddisfazioni e molte perdite, ma a lungo dopo qualche raccolto deludente avrei avuto un grande prodotto da vendere. E il mio prodotto non mi sarebbe servito per arricchirmi in danaro, ma in qualità della vita e in serenità.
Uscito dalla Clinica iniziai un percorso di ricerca interiore, fatta di lettura, di isolamento, ma anche di iniziative che mi portavano fuori strada, del tutto fuori strada, per poi riprendere il mio viaggio ancora più sicuro. Era difficile vedere apparire i primi risultati e chi mi circondava non capiva quanto la mia terra fosse arida e quanto andava ancora coltivata con prodotti specifici per poterla rendere di nuovo fertile. Dio sa quanti frutti sono marciti appesi alle piante, quanto seme è stato versato inutilmente in terre che non generavano prole, quanto amore non ho ricevuto durante questo percorso eppure la mia strada era quella, e non potevo dire a nessuno che la stavo percorrendo perché sentivo diffidenza verso di me, perché sapevo che in un mondo frenetico nessuno avrebbe capito la mia necessità di fermarmi e guardare l’acqua del fiume scorrere.
Nessuno sa che grande significato abbia l’acqua che scorre, quell’acqua che sembra sempre uguale ma che sa mutare così inesorabilmente il paesaggio, e mentre l’uomo poco accorto non si rende conto che tutto cambia intorno a lui, l’acqua lavora ancora per creare un mondo nuovo. L’acqua non sceglie il letto su cui scorrere, ma l’uomo può scegliere il luogo e il tempo in cui vivere, e, anche se solo in parte cercare di mutare la propria realtà.
Il mio segreto stava in fondo al mio cuore e mi sentivo sempre più solo, non riuscivo a far capire l’importanza del mio cammino perché non ne parlavo a nessuno, ma non potevo lasciarlo, era “Il Cammino di Alessandro”, e lasciarlo voleva dire far morire il vero Alessandro. L’avevo nascosto a tutti, non avevo permesso a nessuno di conoscerlo e l’avevo rinchiuso in una cella buia con una maschera triste che gli appesantiva l’anima. Ma Alessandro era vivo, e aspettava solo che la “terra tornasse fertile” per poter di nuovo sbocciare e tornare come quel bambino di cui mi raccontava mia madre, che appena sveglio calciava via le lenzuola e scoppiava a ridere.
E mentre il contadino si chiedeva perché gettassi al vento il raccolto, io mi nutrivo di nuova vita. E mentre in me morivano i frutti di un anno di lavoro, migliorava il terreno su cui coltivare il mio futuro.
E’ l’alchimia della vita, una sorta di regola non scritta, e come nella chimica si afferma: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” (Antoine-Laurent de Lavoisier), così anche nella nostra esistenza c’è uno scambio equivalente fra due vite, fra due essenze. Per generare una vita felice si devono versare infinite lacrime.
E il mio terreno deve ancora piangere raccolti gettati… E io devo ancora seminare terre aride e disperdere seme.

 

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La persistenza della memoria Disponibile in Ebook o cartaceo.

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“Il Cammino di Alessandro.” V “Sosta forzata”

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Uscire dalla clinica non fu facile, non fu come varcare una qualsivoglia porta e rientrare nella realtà, ma significò riprendere a vivere nella realtà, senza più essere circondato da “simili” e da un recinto ben definito. Ma: “Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo. (Ecclesiaste 3.1)”, ed era arrivato anche il tempo di tornare a vivere e riaffrontare il mondo reale.
Il 10 ottobre 2008 si concluse un ciclo, i quarantaquattro giorni più intensi della mia vita, forse fra i giorni che segnarono di più la mia coscienza e il mio modo di percepire il mondo. Avevo fatto le valigie, ed ero pronto ad andarmene dalla mia stanza, l’ultimo saluto prima di lasciarla per sempre. Varcai la soglia e venni circondato dalle mie amiche, dalle mie compagne di viaggio: Federica, Enrica, Maria, Teresa, ed altri mi circondarono e mi sommersero d’amore. Enrica mi abbraccio così forte che mi fece quasi male, e mi disse che ero la persona migliore che avesse mai conosciuto, piangendo e dicendomi grazie. Grazie anche a Maria, e a me, aveva superato il black out della sua psiche. Mi sentivo disorientato da quell’affetto, da quell’amore espresso da così tante persone. E i miei genitori guardavano a questa scena commossi. Salutai tutti e poi andai dal mio compagno di stanza, gli regalai un libro, “Agrodolce” di Mauro Corona, e “minacciai” di “picchiarlo” se non fosse uscito di casa più spesso una volta tornato tra le sue montagne. Salutai le infermiere, le Oss, i Dottori, la barista del piano terra, che mi offrì l’ultimo caffè, e varcai la soglia che mi riportava nella realtà.
Ero talmente intontito dai farmaci che non riuscivo a far nulla, dormivo sempre, mi svegliavo tardi e poi andavo a fare volontariato, e così passai il mio 2009 condizionato dal “Seroquel”, uno psicofarmaco che preso la sera mi rimbambiva per tutto il giorno. Non avevo aspettative, non avevo lavoro e non riuscivo a trovare la forza di cercarlo. Come avrei potuto lavorare se dormivo in piedi? Come avrei potuto concentrarmi se non avevo più forze da spendere. Ero caduto di nuovo, e iniziavo ad avere paura. Ma più di me avevano paura i miei genitori che continuavano a misurarmi con i loro mezzi culturali.
C’era un aspetto positivo nella mia vita in quel periodo, ero in cassa integrazione e questo mi permetteva di avere molto tempo per me, voleva dire più tempo da dedicare alla mia salute mentale e psichica, voleva dire avere un reddito pur non lavorando. Senza questa crisi io sarei senz’altro morto.
Non potevo più guidare, soprattutto la sera avevo paura della strada, la vista mi si offuscava e venivo preso dal panico, fu così che persi i contatti con gli amici, e che cominciai a capire di non averne di veri. Ero sempre a casa da solo, e se non ero io a muovermi nessuno veniva a trovarmi. Venti, trenta chilometri erano diventati incredibilmente lunghi da percorrere per venire da me. Magari per andare a mangiare fuori no, ma per dedicarli ad un amico in difficoltà erano immensi.
Finì, il 2009, finì il 2010. Miglioravo, ma ero fermo, anche se dentro me stava cambiando tutto io non me ne accorgevo.

 

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