Uscire dalla clinica non fu facile, non fu come varcare una qualsivoglia porta e rientrare nella realtà, ma significò riprendere a vivere nella realtà, senza più essere circondato da “simili” e da un recinto ben definito. Ma: “Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo. (Ecclesiaste 3.1)”, ed era arrivato anche il tempo di tornare a vivere e riaffrontare il mondo reale.
Il 10 ottobre 2008 si concluse un ciclo, i quarantaquattro giorni più intensi della mia vita, forse fra i giorni che segnarono di più la mia coscienza e il mio modo di percepire il mondo. Avevo fatto le valigie, ed ero pronto ad andarmene dalla mia stanza, l’ultimo saluto prima di lasciarla per sempre. Varcai la soglia e venni circondato dalle mie amiche, dalle mie compagne di viaggio: Federica, Enrica, Maria, Teresa, ed altri mi circondarono e mi sommersero d’amore. Enrica mi abbraccio così forte che mi fece quasi male, e mi disse che ero la persona migliore che avesse mai conosciuto, piangendo e dicendomi grazie. Grazie anche a Maria, e a me, aveva superato il black out della sua psiche. Mi sentivo disorientato da quell’affetto, da quell’amore espresso da così tante persone. E i miei genitori guardavano a questa scena commossi. Salutai tutti e poi andai dal mio compagno di stanza, gli regalai un libro, “Agrodolce” di Mauro Corona, e “minacciai” di “picchiarlo” se non fosse uscito di casa più spesso una volta tornato tra le sue montagne. Salutai le infermiere, le Oss, i Dottori, la barista del piano terra, che mi offrì l’ultimo caffè, e varcai la soglia che mi riportava nella realtà.
Ero talmente intontito dai farmaci che non riuscivo a far nulla, dormivo sempre, mi svegliavo tardi e poi andavo a fare volontariato, e così passai il mio 2009 condizionato dal “Seroquel”, uno psicofarmaco che preso la sera mi rimbambiva per tutto il giorno. Non avevo aspettative, non avevo lavoro e non riuscivo a trovare la forza di cercarlo. Come avrei potuto lavorare se dormivo in piedi? Come avrei potuto concentrarmi se non avevo più forze da spendere. Ero caduto di nuovo, e iniziavo ad avere paura. Ma più di me avevano paura i miei genitori che continuavano a misurarmi con i loro mezzi culturali.
C’era un aspetto positivo nella mia vita in quel periodo, ero in cassa integrazione e questo mi permetteva di avere molto tempo per me, voleva dire più tempo da dedicare alla mia salute mentale e psichica, voleva dire avere un reddito pur non lavorando. Senza questa crisi io sarei senz’altro morto.
Non potevo più guidare, soprattutto la sera avevo paura della strada, la vista mi si offuscava e venivo preso dal panico, fu così che persi i contatti con gli amici, e che cominciai a capire di non averne di veri. Ero sempre a casa da solo, e se non ero io a muovermi nessuno veniva a trovarmi. Venti, trenta chilometri erano diventati incredibilmente lunghi da percorrere per venire da me. Magari per andare a mangiare fuori no, ma per dedicarli ad un amico in difficoltà erano immensi.
Finì, il 2009, finì il 2010. Miglioravo, ma ero fermo, anche se dentro me stava cambiando tutto io non me ne accorgevo.
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