“Ninfe dormienti” di Lucia Guidorizzi

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“O prigioniero delle tue bende/pendulo e solo/soffri? Il tuo cuore sente che attende l’ora del volo?” da “L’amico delle crisalidi” G.Gozzano

Guido Gozzano prima di morire si dedicò a studiare la metamorfosi delle farfalle.

Scrisse poesie dettagliate su bruchi, crisalidi e farfalle, quasi che, sentendo approssimarsi l’ora del commiato, lo studio di quelle ninfe dormienti in attesa di metamorfosi future potesse offrirgli la possibilità di trovare un varco tra essere e non-essere, lo aiutasse ad attraversare la soglia tra visibile ed invisibile.

“Per tutto il giorno in torpida quiete/uno spasimo ignoto li tormenta:/essere un altro, uscire da se stessi!/ Uscire da se stessi? E li vedete/ or gonfiarsi, or contrarsi, ora dibattersi/ or nelle membra tremule far arco,/finchè sul terzo nodo ecco si fende/l’antica spoglia e sul velluto stinto/ vivida risplende la divisa nuova.” da “Dei bruchi”

Cosa sa il bruco della farfalla, cosa sa la farfalla del bruco? Ogni spasimo di trasformazione è parte di un processo di trasformazione che ci permette di divenire Altri e al tempo stesso di abbandonare le forme superate che appartenevano agli stadi precedenti dell’essere.

“Ed uno appare in due e due in uno/ma già l’infermo tutto si distorce,/ come da un casco liberando il capo/ dal capo antico, dalle antiche zampe liberando, lento/movendo già, lasciandosi alle spalle/ quegli che fu, come guaina floscia.” da “Dei bruchi “

Questi versi preziosi da entomologo rivelano quanto sia arduo il divenire e come lo spasimo della metamorfosi si occulti dietro un tempo morto e apparentemente stagnante ma invece foriero di miracoli.

“Ogni forma di bruco è dileguata:/la crisalide splende, il nuovo mostro/ inquietante, ambiguo diverso/ da ciò che fu, da ciò che dovrà essere!/ Pendula, immota, senza membra fusa/ nel bronzo verde maculato d’oro,/ cosa rimorta la direste cosa/ d’arte, monile antico dissepolto.” da “Delle crisalidi”

Ninfe dormienti, sognanti mondi a venire, eremiti segregati in bozzoli immaginali, autotrofici eppure sospesi a qualcosa che non è né vita né morte, ma pura dimensione vegetativa.
“Alle pareti ogni defunto/ è un pendulo monile/ ogni monile un’anima che attende/ l’ora certa del volo.” da “Delle crisalidi”
Queste farfalle in attesa di divenire ricordano i dipinti dei sarcofagi egizi che riportano disegnata la figura della mummia che vi giace all’interno, avvolta tra le bende.
cris
Quanto durerà questo sonno profondo in attesa del risveglio? Quali sogni produce?
Attendere è un vano sperare o è un ponte tra il non-essere e l’essere?
“Ma la farfalla tutta, se badate/ ben sottilmente, appare a parte a parte/ in rilievo leggero: il capo chino/ tra l’ali ripiegate come bende,/l’antenne la proboscide e le zampe/ giustacongiunta al petto. La crisalide/ ritrae la farfalla mascherata/ come il coperchio egizio ritraeva le membra della vergine defunta.” da “Delle crisalidi”
crisa
Ogni trasformazione implica una nuova condizione. Si perde sempre qualcosa, ma si guadagna qualcosa d’ altro. Perdere una forma permette di abbandonarsi alla fiducia sperimentando nuove possibilità dell’essere.
“E qui la vita/ sorride alla sorella inconciliabile/ e i loro volti fanno un volto solo./ Un volto solo. Mai la Morte s’ebbe/ più delicato simbolo di Psiche:/ psiche ad un tempo anima e farfalla/ scolpir sulle stele funerarie/ dagli antichi pensosi del prodigio./ Un volto solo…” da”Delle crisalidi”
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Solo chi non sa chi è può provare a divenire qualcosa.
Nota di Lucia Guidorizzi
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Il mare in una lacrima (di Monica Bianchetti)

Abdel and the Balsa Lampedusa Di Jason deCaires Taylor

Sono qui mio Dio, distesa nella pineta guardo il cielo e prego.
L’estate è arrivata. Il caldo sulla pelle mi ricorda la mia terra. Gli aghi dei pini marittimi mi pungono la schiena e la resina mi pizzica il naso.
Mi stanco ben presto di guardare le farfalle svolazzare di fiore in fiore.
L’aria salmastra che giunge dal mare mi richiama verso la spiaggia dove fiori rosa e lilla, di cisto selvatico, fioriscono e sfioriscono. Mi alzo e mi dirigo verso il mare.
Lo sai, vero, che da quella notte non ho più messo piede nella spiaggia.
E’ strano per me tornare in quel luogo, ed il passato arriva prepotente a ferirmi, a risucchiarmi nell’orrore.
Solo pochi mesi prima ero clandestina in mezzo al mare, su un’imbarcazione di fortuna uomini, donne, bambini, stipati e ammassati, nudi, solo con la vergogna di essere uomini e non animali.
Quante notti ho passato a pregare guardando le stelle, a contare onde che sbattevano sullo scafo rimbombando come tamburi nella foresta, a sognare la savana.
Di notte non si dorme, dormire è un lusso che un clandestino non si può permettere.
Ero partita perché volevo una vita migliore, o forse solo una vita.
Io ero forte, Safira, al contrario, era piccola e gracile.
Safira era con me. Era bella, la più bella del villaggio. Occhi grandi e neri, gambe da gazzella, denti bianchi che quando rideva, ridevano tante ragazze, una folla di ragazze. Ma da troppi giorni non vedevo il suo meraviglioso sorriso.
Siamo africane, amiamo la terra, i nostri piedi hanno camminato tanto sulla rossa terra d’Africa e non capiamo questo mare furioso che, di notte, graffia le fiancate della barca e di giorno acceca sotto il sole.
Passano i giorni e la costa non si vede. Tutt’intorno acqua e paura.
L’ho convinta io a partire, e ora Safira sta male. Ha sete. L’acqua è finita da un pezzo. Resisti Safira!
La stringo a me, è così scarna per la sua età. Perdonami, Safira.
Passano i giorni e la gente muore. Gente di cui non conosco il nome, occhi sconosciuti, labbra sconosciute. Eppure quelle labbra avevano parlato, avevano baciato…
Il giorno in cui vediamo la terra, il vento ci scorre addosso impertinente e si leva un canto che nasconde i segreti e il sapere di antiche famiglie, accumulati per generazioni.
In questa nuova terra non c’è guerra ma, in fondo, noi siamo solo un branco di corpi nudi e neri in attesa. Nessuno ci aspetta, nessuno ci vuole. Che ne sarà di noi, mio Dio?
Per un momento rivedo la capanna nella savana. Rivedo i vecchi del villaggio, i guerrieri che tornano con le loro prede. La nonna che, ai piedi dell’antico fico, sta consumando un sacrificio per invocare la pioggia. Ad un tratto una goccia cade, poi due, cento, mille gocce a bagnare i nostri corpi arsi di sole e sale. Un lampo attraversa il cielo oscurato dalla fitta pioggia. Il cuore batte forte, gli occhi sono contenti.
La costa è vicina. Profumo di terra feconda, di mandarini e mandorli in fiore, portati dal vento, giocano con il mio olfatto. Intanto la pioggia diventa rovescio. Forza Safira, bevi…
E tento di schiudere le sue labbra ormai esangui. Ma Safira non mi sente più. Non vedremo più il suo bianco sorriso, sta già correndo nella lucente savana del cielo.
Ad un tratto il cielo s’apre, un raggio di sole s’affaccia e bacia il suo volto. Adesso so che è con te, mio Dio, sorride tra le tue braccia e mi ha perdonato.
Con la mano asciugo dal suo viso una lacrima di mare.
Kwa heri, Safira… Addio, Safira!

Tratto da “LE CURVE DELLE PAROLE” di Monica Bianchetti

Ed.La Serenissima

La donna di sabbia

la-donna-di-sabbia-1964-hiroshi-teshigahara-10“La donna occupa un posto misterioso e centrale, attorno cui ruotano l’immobile fissità di giorni sempre uguali, i desideri di fuga, i radi contatti con il resto della comunità, i pensieri ossessivi del protagonista. L’amore non ha posto, qui, neppure nell’epilogo che lo farebbe quasi supporre.
L’uomo, usato dalla donna per dividere la fatica del quotidiano riempimento di ceste di sabbia si serve a sua volta della donna come una metaforica “presa di terra” delle proprie frustrazioni sessuali, psicologiche e culturali.
Eppure sarà il pragmatismo dai piedi per terra (il suo elemento maschile) a soccombere al mondo capovolto della donna di sabbia (la parte femminile dell’universo) quando, pur avendone la possibilità, rinuncerà alla fuga, per restare con lei.
Il ricordo della vita precedente svanisce nella realizzazione di una vita incredibilmente possibile.
La donna e la sabbia sono ora l’unica prospettiva di senso compiuto, così come l’acqua che sgorga dal terreno e la vita che prende forma nel corpo della compagna danno all’uomo l’esatta misura della sua nuova libertà. O della sua nuova prigionia”, commento di Ilde Laura.
“Non c’era più bisogno di scappare in fretta. Ora non soltanto possedeva un biglietto di andata e ritorno, ma c’era uno spazio bianco su cui egli poteva scrivere con tutta libertà sia la méta sia il luogo del ritorno…In quanto al modo di fuggire, avrebbe fatto in tempo a pensarci anche il giorno dopo”,

La donna di sabbia, 1962, di Kobo Abe

“Ninfe dormienti” di Lucia Guidorizzi

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“O prigioniero delle tue bende/pendulo e solo/soffri? Il tuo cuore sente che attende l’ora del volo?” da “L’amico delle crisalidi” G.Gozzano

Guido Gozzano prima di morire si dedicò a studiare la metamorfosi delle farfalle.

Scrisse poesie dettagliate su bruchi, crisalidi e farfalle, quasi che, sentendo approssimarsi l’ora del commiato, lo studio di quelle ninfe dormienti in attesa di metamorfosi future potesse offrirgli la possibilità di trovare un varco tra essere e non-essere, lo aiutasse ad attraversare la soglia tra visibile ed invisibile.

“Per tutto il giorno in torpida quiete/uno spasimo ignoto li tormenta:/essere un altro, uscire da se stessi!/ Uscire da se stessi? E li vedete/ or gonfiarsi, or contrarsi, ora dibattersi/ or nelle membra tremule far arco,/finchè sul terzo nodo ecco si fende/l’antica spoglia e sul velluto stinto/ vivida risplende la divisa nuova.” da “Dei bruchi”

Cosa sa il bruco della farfalla, cosa sa la farfalla del bruco? Ogni spasimo di trasformazione è parte di un processo di trasformazione che ci permette di divenire Altri e al tempo stesso di abbandonare le forme superate che appartenevano agli stadi precedenti dell’essere.

“Ed uno appare in due e due in uno/ma già l’infermo tutto si distorce,/ come da un casco liberando il capo/ dal capo antico, dalle antiche zampe liberando, lento/movendo già, lasciandosi alle spalle/ quegli che fu, come guaina floscia.” da “Dei bruchi “

Questi versi preziosi da entomologo rivelano quanto sia arduo il divenire e come lo spasimo della metamorfosi si occulti dietro un tempo morto e apparentemente stagnante ma invece foriero di miracoli.

“Ogni forma di bruco è dileguata:/la crisalide splende, il nuovo mostro/ inquietante, ambiguo diverso/ da ciò che fu, da ciò che dovrà essere!/ Pendula, immota, senza membra fusa/ nel bronzo verde maculato d’oro,/ cosa rimorta la direste cosa/ d’arte, monile antico dissepolto.” da “Delle crisalidi”

Ninfe dormienti, sognanti mondi a venire, eremiti segregati in bozzoli immaginali, autotrofici eppure sospesi a qualcosa che non è né vita né morte, ma pura dimensione vegetativa.
“Alle pareti ogni defunto/ è un pendulo monile/ ogni monile un’anima che attende/ l’ora certa del volo.” da “Delle crisalidi”
Queste farfalle in attesa di divenire ricordano i dipinti dei sarcofagi egizi che riportano disegnata la figura della mummia che vi giace all’interno, avvolta tra le bende.
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Quanto durerà questo sonno profondo in attesa del risveglio? Quali sogni produce?
Attendere è un vano sperare o è un ponte tra il non-essere e l’essere?
“Ma la farfalla tutta, se badate/ ben sottilmente, appare a parte a parte/ in rilievo leggero: il capo chino/ tra l’ali ripiegate come bende,/l’antenne la proboscide e le zampe/ giustacongiunta al petto. La crisalide/ ritrae la farfalla mascherata/ come il coperchio egizio ritraeva le membra della vergine defunta.” da “Delle crisalidi”
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Ogni trasformazione implica una nuova condizione. Si perde sempre qualcosa, ma si guadagna qualcosa d’ altro. Perdere una forma permette di abbandonarsi alla fiducia sperimentando nuove possibilità dell’essere.
“E qui la vita/ sorride alla sorella inconciliabile/ e i loro volti fanno un volto solo./ Un volto solo. Mai la Morte s’ebbe/ più delicato simbolo di Psiche:/ psiche ad un tempo anima e farfalla/ scolpir sulle stele funerarie/ dagli antichi pensosi del prodigio./ Un volto solo…” da”Delle crisalidi”
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Solo chi non sa chi è può provare a divenire qualcosa.
Nota di Lucia Guidorizzi

Il mare in una lacrima (di Monica Bianchetti)

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Sono qui mio Dio, distesa nella pineta guardo il cielo e prego.
L’estate è arrivata. Il caldo sulla pelle mi ricorda la mia terra. Gli aghi dei pini marittimi mi pungono la schiena e la resina mi pizzica il naso.
Mi stanco ben presto di guardare le farfalle svolazzare di fiore in fiore.
L’aria salmastra che giunge dal mare mi richiama verso la spiaggia dove fiori rosa e lilla, di cisto selvatico, fioriscono e sfioriscono. Mi alzo e mi dirigo verso il mare.
Lo sai, vero, che da quella notte non ho più messo piede nella spiaggia.
E’ strano per me tornare in quel luogo, ed il passato arriva prepotente a ferirmi, a risucchiarmi nell’orrore.
Solo pochi mesi prima ero clandestina in mezzo al mare, su un’imbarcazione di fortuna uomini, donne, bambini, stipati e ammassati, nudi, solo con la vergogna di essere uomini e non animali.
Quante notti ho passato a pregare guardando le stelle, a contare onde che sbattevano sullo scafo rimbombando come tamburi nella foresta, a sognare la savana.
Di notte non si dorme, dormire è un lusso che un clandestino non si può permettere.
Ero partita perché volevo una vita migliore, o forse solo una vita.
Io ero forte, Safira, al contrario, era piccola e gracile.
Safira era con me. Era bella, la più bella del villaggio. Occhi grandi e neri, gambe da gazzella, denti bianchi che quando rideva, ridevano tante ragazze, una folla di ragazze. Ma da troppi giorni non vedevo il suo meraviglioso sorriso.
Siamo africane, amiamo la terra, i nostri piedi hanno camminato tanto sulla rossa terra d’Africa e non capiamo questo mare furioso che, di notte, graffia le fiancate della barca e di giorno acceca sotto il sole.
Passano i giorni e la costa non si vede. Tutt’intorno acqua e paura.
L’ho convinta io a partire, e ora Safira sta male. Ha sete. L’acqua è finita da un pezzo. Resisti Safira!
La stringo a me, è così scarna per la sua età. Perdonami, Safira.
Passano i giorni e la gente muore. Gente di cui non conosco il nome, occhi sconosciuti, labbra sconosciute. Eppure quelle labbra avevano parlato, avevano baciato…
Il giorno in cui vediamo la terra, il vento ci scorre addosso impertinente e si leva un canto che nasconde i segreti e il sapere di antiche famiglie, accumulati per generazioni.
In questa nuova terra non c’è guerra ma, in fondo, noi siamo solo un branco di corpi nudi e neri in attesa. Nessuno ci aspetta, nessuno ci vuole. Che ne sarà di noi, mio Dio?
Per un momento rivedo la capanna nella savana. Rivedo i vecchi del villaggio, i guerrieri che tornano con le loro prede. La nonna che, ai piedi dell’antico fico, sta consumando un sacrificio per invocare la pioggia. Ad un tratto una goccia cade, poi due, cento, mille gocce a bagnare i nostri corpi arsi di sole e sale. Un lampo attraversa il cielo oscurato dalla fitta pioggia. Il cuore batte forte, gli occhi sono contenti.
La costa è vicina. Profumo di terra feconda, di mandarini e mandorli in fiore, portati dal vento, giocano con il mio olfatto. Intanto la pioggia diventa rovescio. Forza Safira, bevi…
E tento di schiudere le sue labbra ormai esangui. Ma Safira non mi sente più. Non vedremo più il suo bianco sorriso, sta già correndo nella lucente savana del cielo.
Ad un tratto il cielo s’apre, un raggio di sole s’affaccia e bacia il suo volto. Adesso so che è con te, mio Dio, sorride tra le tue braccia e mi ha perdonato.
Con la mano asciugo dal suo viso una lacrima di mare.
Kwa heri, Safira… Addio, Safira!

Tratto da “LE CURVE DELLE PAROLE” di Monica Bianchetti

Ed.La Serenissima